mercoledì 14 giugno 2017

Bashù il piccolo straniero, Bahram Beizai (1989)




Bahram Beizai è un importante intellettuale iraniano. Sarebbe riduttivo considerarlo solo un cineasta: la sua ricerca parte dal teatro, per cui lavora sin dagli anni 60. come autore e regista, insegnandolo, scrivendo perfino un manuale di storia del teatro persiano. Come per molti colleghi sopravvissuti artisticamente e non senza difficoltà alla Rivoluzione, il suo salvacondotto si chiama Kanun, l'istituto pedagogico che produce il suo cortometraggio di esordio nel 1969 (è per altro una delle prime realizzazioni in assoluto dell'istituto) e alcuni lavori successivi. Se il debutto nel lungometraggio, "Ragbar", colpisce per la toccante immediatezza nonostante una struttura poco ortodossa, il peso della cultura classica dell'autore si avverte nelle pellicole successive, in cui i riferimenti alla tradizione e alla mitologia persiane rendono la visione quasi criptica per lo spettatore occidentale.

Il miracolo si compie in piena guerra, quando Beizai, ritrovando la freschezza delle origini, scovando la magia non più nel mito accademico ma nella superstizione e nei riti popolari, fa la storia del cinema iraniano con il suo film più celebre e celebrato: "Bashù il piccolo straniero". 

Nell'inferno dei bombardamenti iracheni il protagonista - a occhio una dozzina d'anni, nero quasi come la pece - perde i genitori, la sorella, il maestro di scuola. Si rifugia in un camion che dal Khuzestan lo conduce nel Gilan. "Dove sono? È ancora Iran qui?", Chiederà. Questa la distanza percorsa dal giovane eroe:



L'esplosione per lo scavo di una galleria scatena in lui un terrore che gli fa abbandonare il veicolo e correre in campi in cui si perde, finché non si imbatte in Naii. Analfabeta, piena di debiti, con due figli da mantenere e un marito in giro per il paese in cerca di lavoro, la donna dapprima respinge Bashù ma, dopo vari tentativi reciproci di avvicinamento, arriva ad accudirlo come un terzo figlio (nonostante l'opposizione che il marito esercita per via epistolare) e a difenderlo dai pregiudizi e dalle cattiverie dei compaesani, con la loro carnagione chiara. 

Grande inno al rispetto delle diversità, Bashù incarna molti topoi del cinema iraniano migliore, spesso concentrato sul punto di vista dell'adolescente sul mondo (rurale) dei grandi. (Anzi possiamo dire che fa da apripista al successo di questa cinematografia. Girato nel 1986 e rilasciato nel 1989, "Bashù" è uno dei primi lungometraggi iraniani a essere distribuito in Occidente. Per l'Europa - di sicuro per l'Italia - il merito va a Babak Karimi, la cui casa di distribuzione prenderà il nome da questo film.)



Tuttavia il capolavoro di Beizai si distacca da tante opere cui a prima vista assomiglia. Anzitutto per la messa in scena, non documentaristica, ma anzi teatrale in certe pose, a partire dalla prima comparsa dei due protagonisti: in particolare, quello di Susan Taslimi che incrocia i lembi del foulard è un fotogramma iconico. Poi per il lato magico e visionario, con i fantasmi dei parenti di Bashù che si materializzano e sembrano addirittura incidere sullo svolgimento. Più tipici invece i risvolti simbolici che Beizai ricava dagli elementi della natura. Si pensi alla funzione dell'acqua: dopo aver letteralmente affondato Bashù nel fiume, Naii prende atto della diversità del colore della pelle del ragazzo; in seguito lo "pesca" con una rete e lo abbraccia, a sancire il rapporto genitoriale e filiale, la rete a simboleggiare il grembo materno; è poi nel mezzo di un acquazzone che, nell'ultima parte, il rapporto sembra rompersi per poi pervenire al ricongiungimento definitivo. Altra immagine rimasta è quella dello spaventapasseri - elemento scenografico intorno a cui il regista aveva concepito un intero spettacolo in gioventù - nella splendida sequenza conclusiva del ritorno del marito di Naii senza il braccio destro (perché dopo aver escluso dal film l'autorità maschile, Beizai ne amputa la parte atta a esercitare violenza).




Altra particolarità di "Bashù" è l'essere a tutti gli effetti un film di guerra: argomento prevalente nel cinema iraniano degli anni 80, ma in sostanza avulso dalle opere successive circolate nei festival internazionali. Il tema dei rifugiati è quantomai attuale e Beizai, oltre parlare di intolleranza e diffidenza, tocca questioni come il lavoro gratuito o sottopagato dei profughi. Le affronta in maniera solo apparentemente superficiale, in realtà rendendole parti integranti di una visione complessiva. 
Tuttavia lo straniero Bashù è sì un rifugiato, ma interno, e il film, girato a guerra in corso, pur avendo una chiara valenza universale contribuisce anche alla cementificazione dell'identità e dell'unità nazionali di quel vastissimo paese multietnico che è l'Iran. Il protagonista e i coetanei del Gilan parlano ciascuno il proprio idioma senza intendersi, ma dopo che il primo impugna un manuale di testo e legge uno slogan patriottico, i secondi gli dicono: "parla come il libro, così ti capiamo".
Inutile aggiungere che l'alfabetizzazione è pure un elemento chiave del rapporto tra Bashù e Nahii; l'accettazione definitiva si accompagna alla stesura di una missiva dettata dalla madre e scritta dal figlio. Poco importa se adottivi.



Che ne è stato dei due indimenticabili attori protagonisti?
Scoperta da Beizai, Susan Taslimi, classe 1950, ne è stata la musa fino a questo film. Dopodiché, nonostante una grande popolarità in patria, è emigrata in Svezia, dove recita tuttora in serie televisive.
Classe 1974, Adnan Afravian non ha più recitato in seguito. Oggi fa il tabaccaio nel capoluogo del Khuzestan, la regione da cui proveniva anche Bashù. Qui una sua foto recente.










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