domenica 13 novembre 2016

I gatti persiani, Bahman Ghobadi (2009)

Uno dei migliori film iraniani del nuovo secolo, al numero 6 della nostra classifica alternativa. Recensione originariamente pubblicata il 17/06/2009 (il film era in anteprima). Oggi chi si ricorda più di Roxana Saberi? Chi è al corrente della tragica fine di alcuni musicisti che vi hanno preso parte?












Del cinema iraniano si sono perse un po' le tracce, nessuno ne parla più, i film da noi non vengono distribuiti. L'ingenuo, fiducioso nelle scelte dei distributori, può pensare che la qualità media dei film sia abbondantemente calata; tuttavia, non è esattamente così.
Chi ne ha seguito comunque l'evoluzione, si è infatti senz'altro accorto che quella iraniana non è più una "scuola", che è venuta meno l'apparente unità di intenti che ne ha caratterizzato le migliori, irripetibili stagioni, ma che comunque i principali autori partoriti dalla Repubblica Islamica oggi continuano per la loro strada, camminano con le proprie gambe, seguono con coerenza il percorso da ciascuno intrapreso.

Bahman Ghobadi non fa eccezione. Abbandonato dalle sale italiane dopo l'ottimo debutto nel lungometraggio di fiction, fa altrettanto bene con i lavori successivi, inediti in Italia. Giunto all'opus numero cinque riesce però a spiazzare tutti: sia chi lo ricorda per "Il tempo deicavalli ubriachi", sia chi ha avuto modo di vedere i suoi film successivi, sia chi si aspetta il tipico film iraniano, magari nella sua variante di lamentosa denuncia, dato il tema affrontato.

Niente di tutto ciò. Ne "I gatti persiani", del precedente cinema di Ghobadi c'è poco o nulla: i protagonisti e la loro lingua non sono curdi ma appunto persiani; l'ambientazione non è rurale, ma cittadina che più non si può, visto che siamo nella capitale Teheran. Resta solo l'interesse per la musica: ma questa volta non per quella tradizionale curda (come in "Daf", "Marooned in Iraq", "Half Moon"), bensì per quella giovanile; suonata dai giovani stessi. Soprattutto, di forte matrice occidentale. Per tutto il film, l'autore mostra infatti comprensione e affetto per la voglia di cultura straniera, anche scadente, che serpeggia tra gli iraniani e per i quali è sostanzialmente preclusa.

Anche del tipico cinema iraniano c'è ben poco: la circolarità della struttura, il ricorso al fuori campo, il gusto per la sorpresa del pubblico, la cui prima impressione è talvolta smentita: ad esempio, lo spettatore scopre che una donna è cieca solo quando vede il bastone bianco, dopo averla osservata per lungo tempo senza accorgersene.
Per il resto, niente lunghe sequenze dall'andamento compassato, bensì rapide istantanee dal ritmo incessante. Ma non frenetico: nonostante il digitale, la videocamera storta, le inquadrature sfocate (l'avreste mai detto, in un film iraniano?), il montaggio si fa più frequente solo quando accompagna, a tempo, i brani indie-rock, metal, hip-hop, suonati dai protagonisti; svelando al contempo frammenti altamente significativi, ma mai didascalici, della realtà che sta alla luce del sole (mentre i musicisti sono costretti a provare e a registrare nelle catacombe). L'insieme che deriva da questa intuizione - la più azzeccata del film - è un autentico e prezioso mosaico.

La denuncia dei problemi sociali è dunque prioritaria, ma il controllo della scrittura - ed è un altro innegabile pregio - non dà l'impressione di abdicare all'urgenza dell'accusa. Né la materia è trattata come nella più sciatta opera di propaganda: il finale è sì pessimista, forse non potrebbe essere altrimenti, ma lo svolgimento è carico d'ironia. Più precisamente, ironia e dramma si rapportano in maniera dialettica: talvolta è la prima a smorzare una situazione tesa, talvolta l'allegria sfocia improvvisamente in dramma. Nel complesso, comunque, i toni sono lievi: di fatto, si tratta di una commedia musicale.

Anche in questo caso, pertanto, chi andrà alla ricerca di un avallo, in questi mesi politicamente tormentati, dei propri (pre)giudizi sulla Repubblica Islamica, rischierà di non esserne del tutto appagato. Ma di scoprire invece, ad esempio, che gli iraniani sanno anche scherzare dei loro problemi, in maniera estremamente intelligente. A giudizio di chi scrive, le sequenze più riuscite sono infatti due; in entrambe, il potere e la repressione intervengono per questioni marginali, di poco conto, mentre Ghobadi ce li fa soltanto intravvedere o li lascia del tutto fuori campo, facendo caricatura e paradosso della loro assurdità. In una un processo più che sommario viene mostrato attraverso l'uscio di una porta socchiusa, nell'altra un gendarme non inquadrato ferma i protagonisti perché trasportano un cane in auto.

Se non si fosse ancora capito, "I gatti persiani" è un film che sorprende, soprattutto in positivo. Ma chi ci ha visto un capolavoro ha forse preso un abbaglio, poiché la struttura palesa crepe, alti e bassi, lungaggini. Il nome di Roxana Saberi suscita interesse per la notorietà della sua vicenda, ma la sua penna non si dimostra così efficace nella stesura dello script. Ghobadi, dal canto suo, pare aver realizzato un buon film di transizione in vista del suo approdo negli States. Anche se, nonostante un'offerta della Dreamworks già in cantiere, per il nuovo stile adottato sembra pronto più per il Sundance che per Hollywood.


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