mercoledì 31 maggio 2017

Libro: Moviement - Amir Naderi





All'interno di una collana dedicata a grandi registi, curata da Costanzo Antermite e Gemma Lanzo, un volume sull'iraniano apolide Amir Naderi
Nella struttura, a raccolta di saggi brevi di autori diversi, la prima fase della carriera dell'autore - che dalla fine degli anni 80 abbandona la terra natia - non fa certo la parte del leone, pur racchiudendo il corpus più ampio di film realizzati dal Nostro, tra cui il meglio reputato: "Il corridore"Complice è senz'altro l'estrema difficoltà nel reperire le copie; ma il fondato sospetto è che le produzioni statunitensi e giapponese (quella italiana - "Monte" - è qui ancora soltanto un'idea, l'inizio di una sfida) godano in sé di maggiore attrattiva per i cinefili (parliamo di un cinema completamente estraneo al grande pubblico), senza in questa sede indagare i motivi.

Fatto sta che al periodo iraniano è dedicato solo il primo capitolo, curato dal produttore e studioso di cinema Bahman Maghsoudlou, anch'egli persiano di nascita e americano d'adozione. Testo che risale al catalogo del Pesaro Film Festival del 1990 e che è di sicuro interesse, nel suo tratteggiare la parabola di Naderi dall'abbandono del cinema commerciale, all'incontro con Sohrab Shahid Saless, allo sviluppo dei temi principali (il passaggio all'età adulta, la resistenza e la perseveranza dell'individuo i più ricorrenti).


Bahman Maghsoudlou e Amir Naderi nel 1991

Nessun saggio è dedicato all'analisi dei lavori iraniani, mentre tale fortuna spetta a diversi film successivi, dove talvolta si trova qualche spunto comparativo con l'opera giovanile: ad esempio, acute sono le considerazioni, trasversali a diversi punti del volume e tra loro complementari, sul passaggio a un cinema che cura maggiormente i personaggi femminili, mai protagonisti prima dell'approdo negli Usa. Anche se l'autore sostiene che il protagonista del film sia in pratica sempre lo stesso, portatore di elementi autobiografici.

Superata la sezione sul Naderi fotografo, pronti a dribblare i tanti errori di traduzione, troviamo parti attinenti al nostro blog nelle due interviste conclusive a Maghsoudlou e al regista. Ci si può divertire a leggere quest'ultimo che, oltre a tessere lodi sperticate per l'istituto pedagogico Kanun, sciorina la sua cultura cinematografica enciclopedica elencando tutti i maestri che hanno influenzato le diverse componenti del suo lavoro: Ozu i silenzi, Mizoguchi i movimenti di macchina, e via tanti altri. Soprattutto: americani, giapponesi, italiani.


"Entezar" ("L'attesa"), 1974






martedì 23 maggio 2017

Il sapore della ciliegia, Abbas Kiarostami (1997)

Atipico road movie al contrario, acuta riflessione filosofica per immagini, punto di arrivo dello stile che ha reso celebre un artista geniale. 




Un frutto dalla lenta maturazione 

Abbas Kiarostami ha appena completato la sceneggiatura del quarto capitolo della trilogia di Koker, ma non la filmerà mai: una ciliegia, che è nella testa dell'autore da circa otto anni, a fatica sta cominciando a maturare. Anche perché indeciso sul finale, nel 1996 il regista sceglie come titolo provvisorio "Viaggio verso l'alba", poi trasformato ne "L'eclisse". Un serio incidente d'auto gli fa interrompere la lavorazione; infine la pellicola su cui è impressionata la sequenza dell'epilogo brucia, diventando inutilizzabile. Viene sostituita con materiale girato da un membro della troupe.
Con il titolo definitivo "Il sapore della ciliegia" il film, che doveva essere presentato alla Mostra di Venezia del 1996, arriva in concorso a Cannes 1997 - edizione del cinquantenario - solo all'ultimo momento, fuori catalogo, ma torna a casa con il bottino pieno: l'albero della ciliegia è una Palma d'oro, prima e unica per il cinema iraniano. Poco importa l'ex-aequo con "L'anguilla" di Imamura.






Una storia semplice...

Autunno. Un uomo di mezza età, alla guida di una Range Rover 4x4, si aggira misteriosamente per le colline intorno a Teheran. Cosa cerca? Persone da caricare in macchina, per una proposta. Dopo qualche rifiuto, sale un giovane soldato curdo, a cui infine il protagonista rivela di chiamarsi Badii, di volersi suicidare e di cercare qualcuno che, dietro lauto compenso, si rechi alla fossa in cui sarà sdraiato e, dopo aver accertato il decesso, lo ricopra di terra. Il ragazzo scappa terrorizzato. Successivamente un seminarista afgano rifiuta, poi un imbalsamatore turco-azero cerca di fargli cambiare idea, ma in ultimo accetta. Infine vediamo Badii nella fossa, ma non ne conosceremo con certezza il destino. L'epilogo ci mostra il protagonista 'redivivo' e la troupe sorridente, in primavera.


...per un'opera complessa. Domande e risposte per capirci di più


Perché un film sul suicidio?

Abbas Kiarostami dice in più occasioni di essersi ispirato all'opera poetica di Omar Khayyam e a un aforisma di E. M. Cioran: "Se non ci fosse la possibilità del suicidio, mi sarei già suicidato da tanto tempo". Ma è probabile che a monte ci siano anche ragioni autobiografiche, per esempio la lunga malattia mortale che colpisce suo padre.


Con quali scelte stilistiche viene affrontato il tema?

Il primo dispositivo drammaturgico è quello della dilazione. Non vediamo subito i titoli di testa, non conosciamo, se non col tempo, la voce, il modello dell'auto, il nome, l'intento del protagonista (si vedano le analisi cronometriche, che hanno fatto scuola, di Marco Dalla Gassa nella monografia "Abbas Kiarostami" del 2000); non sapremo mai il mestiere dell'uomo, la situazione familiare, il motivo del suo proposito e né se sarà compiuto. L'autore punta a generare curiosità in chi osserva, a fargli porre quesiti e anche immaginare soluzioni, ad affrontare il film con la testa e non con i sentimenti, senza immedesimazione nel protagonista.

Badii e i suoi compagni di questo strano viaggio non compaiono insieme nelle stesse inquadrature, hanno tra loro un rapporto distaccato. E quando parlano, è come se si rivolgessero allo spettatore.

L'automobile viaggia avanti e indietro per gli stessi luoghi, spesso scompare dietro le colline come se venisse interrata. Rimandano a immagini di morte o sepoltura tanti elementi del panorama naturale e artificiale: corvi, sabbia (che in una sequenza sommerge Badii), temporale, scavatrici, uccelli imbalsamati, solo per elencarne alcuni. L'autunno è la stagione del declino, i colori nettamente dominanti, giallo e ocra, sono nella tradizione persiana simboli della speranza smarrita  e della depressione.

Lo schermo nero prima del finale, che dura un minuto circa, costringe chi guarda a confrontarsi per lunghi attimi con il nulla, col buio di chi chiude gli occhi per morire.


Che funzione hanno i tre passeggeri?

Il protagonista è un persiano, senza apparenti difficoltà economiche. I tre interlocutori principali, che rappresentano anche tre età diverse dell'uomo dalla più giovane alla più avanzata (ma anche il figlio, il fratello, il padre), appartengono tutti a minoranze etniche (curiosità: l'imbalsamatore arriva da Mianeh, località di cui è originaria la famiglia di Jafar Panahi) e dichiarano di avere insufficiente denaro per i loro differenti scopiKiarostami vuol dirci che una condizione di relativo privilegio sociale non rende immuni dalle più gravi depressioni.
Il giovane soldato e l'anziano imbalsamatore (impiegato al museo di scienze naturali) simboleggiano inoltre la paura di ciò che ci attende e la saggezza maturata con le esperienze di vita vissuta ("Vuoi rinunciare al sapore della ciliegia?", da cui il titolo). L'incontro intermedio è, come dichiarato dal regista, strumentale a restituire un punto di vista religioso, per assecondare gli ayatollah e sperare in un nulla osta censorio. Peccato che i dialoghi platonici che accompagnano l'evoluzione del film conducano alla conclusione che cotanta saggezza, religiosa o laica che sia, è del tutto inadeguata a capire e a consolare chi il male di vivere ha incontrato. 
Un'ulteriore interpretazione (dal "Castoro" di Marco Della Nave) vuole i tre uomini come possibili fantasmi nella mente del protagonista; ma questo contraddirebbe l'impianto realistico, per quanto per nulla scevro di sovrastrutture filosofiche e religiose, che caratterizza l'opera omnia dell'autore. Quest'ultimo li identifica invece con "i tre ordini del mondo indo-europeo: il guerriero, il prete, l'uomo comune".





Perché Badii vuole suicidarsi?

L'unica risposta giusta a questa domanda è: non si sa. E neanche è importante. Ciò che interessa all'autore è che lo spettatore rifletta su una decisione già presa, si interroghi sull'opportunità del suicidio e su cosa comporti e rappresenti.
Se però vogliamo divertirci a trovare comunque una motivazione, possiamo raccogliere qualche indizio. La presenza spropositata di militari e i dialoghi sulle guerre possono rinviare a un episodio accaduto al protagonista nel periodo che egli definisce come il più felice della sua vita: il servizio di leva. Oppure l'accenno ai rapporti ferali con le persone care e la ricorrenza, pur saltuaria, del tema in episodi per lo più minori della filmografia del regista ("Il rapporto", "Lumière and Company", il successivo "Copia conforme") possono far pensare a una delusione sentimentale (da cui anche l'assenza di figure femminili rilevanti nel film).


Che senso ha l'epilogo?

Dopo gli attimi di schermo nero, il film si chiude con una controversa sequenza, che Kiarostami stesso era molto indeciso se inserire o meno; un post scriptum volutamente ben separato, non integrato nella trama. La sequenza si contrappone in maniera netta al punto a cui si era arrivati: è primavera, c'è luce, domina il verde speranza, Badii fuma tranquillo, c'è l'unico commento musicale di tutto il film ("St. James Infirmary" di Louis Armstrong). Viene mostrato il backstage del film - con tanto di troupe inquadrata - girato con videocamera a bassa definizione-
Questo finale risponde ad almeno tre esigenze: mette a dura prova eventuali certezze dello spettatore, rappresenta un ritorno alla vita (i soldati sfogliano fiori!), una resurrezione, svela il dispositivo filmico. Quest'ultimo aspetto, tipico dell'autore e del cinema iraniano, può servire anche ad ammansire i severi censori in patria, palesando la finzione di tutto ciò che è stato mostrato. Tale valenza esiste, ma non è da sopravvalutare, come talvolta viene fatto.


Come è stata scelta la location?

Il film è girato su strade fatte tracciare ad hoc (come già nella trilogia) e che rivedremo nell'incipit di "10 on Ten" (dove Kiarostami sottolinea quanto gli piacciano quei luoghi). All'autore interessava mostrare anche i grattaceli della metropoli in espansione sullo sfondo. Con il figlio Bahman, Abbas filma i sopralluoghi e mostra il girato al cast prima delle riprese, per spiegare meglio le sue intenzioni di messa in scena.


Chi è l'attore protagonista?

Homayoun Ershadi. Classe 1947, architetto, poi antiquario, nel 1996 è un attore semi-amatoriale con un paio di particine alle spalle. Grazie a questo film, a cinquant'anni diventa professionista a tutti gli effetti. È ancora in attività.


Che precedenti e che lasciti del film possiamo individuare? 

Per certi versi "Il sapore della ciliegia" è un unicum nella storia del cinema, anche se con diversi film si possono trovare affinità parziali. Facciamo solo due esempi. È curioso che un film con tema principale l'avvicinamento alla morte l'abbia girato l'altro vincitore di Cannes '97, Shoehi Imamura: "La ballata di Narayama". Se guardiamo invece ai meccanismi drammaturgici e allo stile, un'opera successiva somigliante è "Locke" di Steven Knight.

"Il sapore della ciliegia" e il suo trionfo cannense sono inizialmente del tutto ignorati in Iran (se non per lo scandalo di un bacio casto di Catherine Deneuve al regista...). Ma in tempi brevi, grazie alle aperture culturali del governo Khatami, il film può circolare in patria senza particolari criticità.

L'assistente alla regia Hassan Yektapanah realizzerà, in proprio, alcuni film di tutto rispetto, come il debutto "Djomeh".


Ci sono altre domande?




martedì 16 maggio 2017

Libro: L'attrice di Teheran, Nahal Tajadod (2013)

Avviso ai naviganti: se state cercando un bel libro, "L'attrice di Teheran" non è forse la scelta giusta. Biografia romanzata (ma parrebbe realistica) e camuffata (per tutelare l'incolumità della protagonista) di Golshifteh Farahani, tra le poche attrici iraniane a sbarcare a Hollywood, il testo di Nahal Tajadod rientra nel filone della copiosa letteratura della diaspora, spesso mediocre sul piano stilistico, che si rivolge a un target occidentale. Vuoi furbescamente - per sfruttare lo scandalo della denuncia politica nei confronti di un paese lontano, che magari viene presentato con una caricatura - vuoi con un non disprezzabile intento divulgativo. In questo caso la scelta del destinatario è dichiarata, quindi l'autrice gioca pulito. E il suo libro presenta anche elementi di interesse.




Persone e film non sono mai riportati col loro vero nome o titolo, quindi è difficile riconoscerli tutti, anche filmografia alla mano. Ma per gli appassionati può essere divertente. Si colgono senz'altro il debutto, giovanissima, cioè lo splendido "The Pear Tree" di Dariush Mehrjui (1998), albero che anziché una pera le frutta immediatamente un premio al Fajr Film Festival; e il suo ultimo film in patria, "About Elly" di Asghar Farhadi (che non cede alle pressioni delle autorità per non scritturarla!), definito il suo film iraniano migliore, senza per altro chiarire se tale giudizio sia dell'autrice o della protagonista (e nonostante - si scopre - Mani Haghighi le abbia perforato un timpano nella scena dello schiaffo). Se ne riconoscono diversi altri, si capisce che il regista americano di culto, che lei non ha mai sentito nominare, è Ridley Scott; ma chi è invece in grado di catalogare tutti gli innamoramenti della Nostra? 

Classe 1983, Golshifteh Farahani (Sheyda Shayan nel libro) cresce in una famiglia emblematica del ceto intellettuale prima e dopo la Rivoluzione; discendente in parte da "infedeli" baha'i, padre drammaturgo comunista inviso sia allo scià che agli ayatollah. Il risultato delle rigide scuole religiose è per la Farahani l'ateismo, mentre un fratello maggiore si arruola tra i miliziani fanatici basiji.
Da bambina subisce molestie sessuali da un vicino di casa; in seguito un'aggressione misogina in strada, con uno sconosciuto che le getta addosso dell'acido. Da ragazzina si rade i capelli a zero e si traveste da uomo per giocare a basket con i maschi, come le tifose di "Offside" per andare allo stadio. Il cinema, capitato quasi per caso (il fratello più grande, attore, la iscrive di nascosto a un provino) le fa abbandonare una possibile carriera da musicista. Compare in molteplici pellicole e calca qualche palcoscenico. Diventa eroina nazional-popolare interpretando la giovane madre di un bambino menomato dalle armi chimiche di Saddam, in "M for Mother" di Rasool Mollagholipoor (definito "regista islamista").
Più tardi si mostra in Occidente a capo scoperto, poi a seno nudo. Tali scelte, intervallate inoltre da snervanti tiramolla con le autorità censorie, a causa dei ruoli ricoperti in opere straniere, le impediscono di lavorare e finanche di soggiornare in patria. Risiede così a Parigi.





Questo e tanto altro sull'attrice. Per chi fosse invece più interessato alla società nel suo complesso, possono essere molto utili le descrizioni, spesso precise, della vita quotidiana in Iran e del lavoro degli artisti. Ad esempio, il passo seguente sintetizza molto bene ciò che rappresenta il cinema in alcune tappe fondamentali della Storia del Paese:

Nei primi tempi non veniva mai autorizzato niente. La stessa Rivoluzione iniziò con l'incendio del cinema Rex a Shiraz [in realtà Abadan]. Poi acquistò vigore dando fuoco ad altri cinema in altre città. All'instaurazione della Repubblica Islamica tutte le sale, bruciate o scampate, furono definitivamente chiuse [...] Eppure, nel 1907 [...] Teheran aveva già una sala da duecento posti in cui ogni pomeriggio erano proiettati film francesi. 
Nel 1979 [...] la settima arte fu data per morta. Vietato rivedere la luce. Un giorno, tuttavia, l'Imam Khomeini vide alla televisione Gav (La vacca) di Dariush Mehrjui, un film ambientato in campagna che racconta l'attaccamento di un povero contadino alla propria vacca. Affascinato, decretò che il cinema, quel genere di cinema, era tornato lecito. I registi, divenuti nel frattempo falegnami, pasticceri, mediatori [...] approdarono in campagna. Trovarono l'uccello miracoloso e gli infusero la loro vitalità, quel poco che ne restava, che portò, anni dopo, a palme d'oro, leoni d'oro, orsi d'oro e perfino a un oscar. Ma [...] una frase, un comportamento sbagliato poteva decretare la condanna di un film, e al di là di una singola opera, di tutto il cinema iraniano,

Mentre questo breve aneddoto, tra i tanti, illumina sui meccanismi di aggiramento della censura:

Ricordo di avere visto un film in cui l'atto sessuale veniva suggerito dalle pantofole dell'uomo adagiate sulle ciabatte della donna. Si può anche vedere un cravatta gettata su una sciarpa da donna.

Insomma, nelle quasi interminabili 300 pagine del libro, tra pettegolezzi, informazioni, curiosità, i contenuti non mancano.






martedì 9 maggio 2017

Writing on the City, Keywan Karimi (2015)





"I muri sono luoghi essenziali". Dapprima la rivoluzione del '79, vista attraverso i graffiti e le scritte sul cemento della capitale. La cacciata dello scià, il benvenuto a Khomenei, le scritte anti americane, contro chi sosteneva il dittatore e il suo regime carcerario. Pareti fittamente marchiate, netturbini che si affrettano a pulirle, rivoluzionari che vincono quando... sono più veloci loro con la vernice che i netturbini con la spugna. La rivolta come esplosione di parole e segni: contro la Savak, per i martiri e i prigionieri politici. Giornalisti stranieri intervistano il popolo, che dice di fidarsi solo delle scritte sui muri e da lì trarre le informazioni, non certo dai media di regime.





Poi il regime cambia, le vecchie scritte vengono corrette per la delusione di una rivoluzione tradita, che impartisce subito l'ordine di cancellare i graffiti. Tra i vari artefici della rivolta, sempre più disuniti, si instaura una guerra di parole. "Abbasso il maoismo, alleato della Savak e della Cia, abbasso l'imperialismo sovietico nemico dell'Iran", leggiamo tra le altre cose, sempre più anticomuniste, ma anche contro la minoranza curda, accusata di essere controrivoluzionaria.





Però c'è poco tempo per i regolamenti di conti, l'aggressione irachena cambia l'agenda. "La guerra cristallizza la morte nelle immagini". I santini dei martiri diventano preponderanti.



E infine l'urbanizzazione selvaggia della capitale degli ultimi decenni, nuove parole e disegni, a denunciare scempi vecchi e nuovi. 






Dal mediometraggio che è costato a Keywan Karimi una condanna pesantissima, ci si poteva aspettare un pamphlet rabbioso e poco lucido. Invece "Writing on the City", documentario sui graffiti e i murales di Teheran, è un grande film, uno straordinario excursus sulla storia recente del Paese, vista da una prospettiva inedita. Parte da un ottimo lavoro di ricerca di immagini d'archivio delle diverse epoche, che manipola quel poco che basta per darne un'idea di dinamicità e soprattutto di profondità tridimensionale. Karimi non aveva fatto nulla di simile nei suoi film precedenti, se non in poche sequenze di "The Children of Depth", sulle carceri minorili.




Si vede che le scritte sono anche mal fatte, perché fatte di corsa. E perché - dice la voice over femminile - sono fatte dalla gente, non dagli artisti, e brulicano di collera e di odio. Ciò che da noi sarebbe bollato come imbrattamento, deturpamento, vandalismo, è invece espressione politica forte, anche quando confusa. Il regista invece ha le idee chiare e un controllo totale sulla materia, anche quando sfocia in un finale liberatorio, davvero situazionista.





Produzione iniziata nel 2012 e interrotta per l'arresto del regista seguito alla diffusione del trailer. Completata nel 2015. Nel 2017 "Writing on the City" è stato pubblicato per la prima volta in dvd, in edizione francese.
















martedì 2 maggio 2017

Persepolis, Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud (2007)




All'origine c'è un'autobiografia a fumetti. O meglio - e più precisamente - all'origine c'è tutta una vita. Un vita intensa e rocambolesca, quella della ancor giovane (classe 1969) Marjane Satrapi. Non propriamente una vita di stenti; in fondo Marjane discende da una famiglia benestante, addirittura da uno scià (anche se - ed è lei stessa a sottolinearlo - i re cagiari avevano talmente tanti figli che i loro discendenti si contano a migliaia). Piuttosto, una vita drammatica, per i tanti conoscenti tragicamente scomparsi, e al contempo avventurosa, viste le continue, inevitabili peripezie che deve affrontare.



Ma quella narrata in "Persepolis" è anche, se non soprattutto, la storia di un Paese. Forse il riassunto ad uso e consumo del pubblico occidentale, a cui è rivolto questo film che ripercorre le tappe fondamentali della Storia contemporanea dell'Iran non dando nulla per scontato, raccontando anzi le cose che un persiano conosce - si presume - pressoché a menadito. Ma l'ironia, la leggerezza e la passione con cui sono narrate, fanno sì che didascalismi e didatticismi siano fugati. E che sia quasi impossibile non emozionarsi di fronte a ciò che contraddistingue questa delicata opera d'arte: i disegni stilizzati, l'elegante bianco e nero (le sequenze a colori sono quelle relative a partenze, scali e arrivi dell'itinerario perpetuo della protagonista, tra Iran, Austria e Francia), i traumi piccoli e grandi, la crescita fisica, intellettuale e morale della stessa Marjane.




Un romanzo umano intenso quanto divertente, firmato con il collega (di graphic novel) Vincent Paronnaud, ma appartenente al 100% all'autrice. Che ripercorre la sua infanzia (durante la dittatura di Mohammed Reza Pahlavi) segnata dal mito di Bruce Lee e dagli arresti dei parenti militanti comunisti, le disillusioni seguite alla rivoluzione di Khomeini, la messa al bando della cultura occidentale, la tragica "guerra imposta" con l'Iraq e il coevo fanatismo religioso più cieco in patria. L'emigrazione a Vienna, la difficile integrazione e i primi infelici amori; il ritorno in Iran, un affrettato e catastrofico matrimonio, l'approdo finale a Parigi. Tutto vissuto, più che raccontato, con grande partecipazione emotiva, ma sempre con un sorriso amaro sulle labbra.



A far da filo conduttore, il rapporto di Marjane con la religione. Anzi con Dio personificato. Con le sue origini, verso cui prova un misto d'orgoglio e vergogna. Con i parenti: i genitori, ma soprattutto la saggia nonna. E lo zio, che le rammenta uno dei significati ultimi di tutto "Persepolis": "la memoria della famiglia non deve morire mai".



Fonte: Ondacinema