martedì 28 febbraio 2017

Ok Mister, Parviz Kimiavi (1979)

IL PAESE DELLE ROSE E DEGLI USIGNOLI 
 
 
 

 
 
C’era una volta un paese di rose e di usignoli, una terra vergine che non conosceva corruzione. Tra le case in pietra e lo sterrato, la vita faceva il suo corso. In azioni abitudinarie (la donna che fila, l’uomo che ara i campi, le vecchine a preparare il pane) si spegneva l’ennesima giornata. Tutto simile a sempre eppure la felicità regnava nella monotonia. In questo luogo anonimo, privo di coordinate geografiche, è ambientata la commedia surreale/grottesca "Ok Mister" di Parviz Kimiavi del 1979. Un film alieno se si pensa alla vasta produzione cinematografica iraniana. Un meteorite di cui se ne sentiva il bisogno, in un anno cruciale per l’Iran. Ma il notevole lavoro di Kimiavi non ebbe vita facile e la sua visione fu limitata per anni dal comitato di censura nazionale poiché proponeva una rappresentazione poco elogiativa dell’Iran, dipinto come fosse un paese del terzo mondo, popolato da un gregge timido, condotto senza sforzi dal pastore/dominatore (un inglese: William Knox D’Arcy) per i campi di cicuta. Eccolo sbucare dalle crepe aride delle lande deserte iraniane, Sir William Knox D’arcy, il protagonista del racconto. Realmente esistito, D’Arcy fu un uomo d’affari britannico nonché il pioniere dell’industria petrolchimica iraniana. Interpretato da Farokh Ghafari (Farrogh Gaffary nei titoli di coda), celebre regista iraniano e critico di Positif, il magnate inglese si presenta direttamente al pubblico con un fare tra il faceto e l’assurdo. La sua missione è quella di scovare pozzi di petrolio sul territorio per arricchire il suo paese. Ma "Ok Mister", più in generale, è il racconto di una dominazione (quella della Gran Bretagna sull’Iran) e del processo di “civilizzazione” e occidentalizzazione dell’Iran.

Ma un piano tanto difficile non può essere condotto da un uomo solo ed ecco che, improvvisamente, nel cielo s’intravede una strana mongolfiera svolazzare. Agghindata con bianchi fiori che rimandano ad un’idea estinta di purezza, la mongolfiera ospita tre bizzarri personaggi dall’integrità dubbia, dominati anzi da una certa faciloneria ed una spiccata furbizia. Eccoli: Stanley, un giornalista eccentrico a cui spetterà un ruolo marginale nel racconto (metaforicamente la scarsa influenza della carta stampata nei paesi considerati “liberi”); Sir Henry, un goffo e tozzo archeologo a cui non interessano le sorti dell’arte o la possibilità di tramandare ai posteri i tesori di una cultura secolare. Egli ruba i reperti nel corso del film, li intasca sorridente, felice di possedere pezzi di storia, appagato nel tentativo oscurantista di cancellare il passato. In lui si specchia la natura razziatrice del colonizzatore. Infine, vi è Cinderella, una donna dalla bellezza discutibile con occhiali antiestetici e una sgradevole voce squillante. Improvvisamente, la sua immagine sgraziata è sostituita da quella di un’avvenente bionda vestita d’azzurro, la proiezione di una Cenerentola moderna. E della splendida panoramica che ci immerge tra le rovine di Persepoli ad inizio film ne resta solo il ricordo. La bellezza della memoria insozzata dall’avidità dello straniero. Bisogna notare, in aggiunta, come i personaggi inglesi godano di una rappresentazione più vivida e profonda. Hanno un’identità e lo spettatore può amarne o odiarne i loro vizi mentre gli iraniani appaiono nel loro insieme come massa inebetita dall’eloquenza occidentale.


LA BARBARA PRETESA DI CIVILIZZARE 
 
 
 

 
Kimiavi presenta gli occidentali come un esercito affetto dalla sindrome del dominatore, vinto da pruriti imperialistici tinti di sadismo e schiavismo. Il processo di colonizzazione dell’Iran barbaro è graduale e occupa gran parte del film. Per placare ogni slancio rivoluzionario e stordire le menti dell’intera popolazione, D’Arcy gioca l’arma Cinderella. La bellezza della donna ammalia il popolo grazie ad occhiolini scintillanti e alle sue movenze provocanti. Tra la folla, poi, vengono individuati quattro uomini che, attraverso un rito d’inclusione, saranno “adottati” dalla comunità inglese per svolgere mansioni di controllo. Il rito prevede più fasi: quella della vestizione e quella del sacramento eucaristico. Gli uomini si liberano dei loro abiti ed indossano t-shirt colorate, poi, in una riproposizione della sacra eucarestia, ricevono l’ostia e bevono Coca Cola, simbolo indiscusso del capitalismo. D’Arcy tenta anche di uniformare il linguaggio istituendo l’inglese come lingua ufficiale e cancellando ogni traccia del farsi. Si tengono lezioni pubbliche in cui la nuova lingua è insegnata con metodi controversi e servendosi di frasi intimidatorie e alquanto razziste come – your country is not rich-. La comicità nel film è resa il più delle volte dalle battute dei personaggi inglesi o dalle azioni degli iraniani. Lo scarto ha un valore simbolico non indifferente. La libertà di parola permette all’inglese di occupare una posizione elitaria e di potere mentre gli iraniani sembrano quasi profughi nel loro stesso paese e, zittiti dallo stivale anglofono, si rendono comici con azioni tipiche della slapstick comedy.

Durante una partita a golf, Sir D’Arcy colpisce il terreno. Come fosse una trivella, la mazza da golf crea una voragine da cui zampilla del petrolio. La scoperta è grandiosa e colto da un’irrefrenabile sete di potere, il magnate inglese ne beve qualche goccia. Cominciano i lavori di estrazione. La sua lavorazione comporta un aumento delle entrate nel Paese e la conseguente ricchezza devasta l’identità del popolo e rende gli iraniani degli stranieri nella loro terra. Le case diroccate e senza inutili abbellimenti, si riempiono di elettrodomestici, oggetti d’arredamento kitsch e cianfrusaglie occidentali. La magia che avvolgeva la figura delle vecchine impegnate a filare è dissipata ed è sostituita dall’immagine delle stesse che indossano occhiali da sole eccentrici o cappelli dalle più svariate forme e colori. Il regno delle rose e degli usignoli si trasforma nel regno dell’eccedenza.

 
 
Ogni opera imperialistica però ha un suo termine. Che sia riuscita o meno la fase colonizzatrice, vi è sempre un momento in cui il popolo si risveglia da quel limbo in cui è costretto a vagare e decide di cacciare chi detiene il potere. Durante il sortilegio di Cinderella, l’unico a non esserne vittima è un anziano signore considerato pazzo dai suoi compaesani. Etichettato come un folle da emarginare, l’uomo crea una setta volta a sovvertire il potere. Comincia la rivolta per la riappropriazione del proprio Paese. Attraverso azioni clandestine, l’anziano veste i panni del maestro e fa di tutto affinché si ritorni a parlare farsi. Ma l’evento che sigla la fine della dominazione inglese è l’apparizione del Bel Principe (così come è chiamato nei titoli iniziali del film). Il Bel Principe è un misterioso ragazzo iraniano che, col suo canto, riesce ad incantare Cinderella. L’incontro tra i due sfocia in una scena d’amore e nella fuga dell’uomo. Fuggendo, egli perde una scarpa. Kimiavi stravolge la favola di Cenerentola rendendo protagonista un uomo. D’Arcy decide allora di accontentare la sua Cinderella e cerca in tutti i modi di ritrovare il Bel Principe, dapprima, permettendo alla gente di provare la scarpa e, successivamente, attraverso il riconoscimento fisico inscenando un rapporto carnale con la donna. Il riconoscimento passa quindi per il sesso e Kimiavi accentua i perversi desideri degli iraniani indugiando sulle loro gestualità rozze e primitive. Non essendoci traccia del Bel Principe, a Cinderella non resta che cantare. A chiudere definitivamente Ok Mister però è la rivolta intestina che riporta la serenità nel Paese. D’Arcy rischia il linciaggio e quindi decide di suicidarsi in una maniera assolutamente surreale lasciandosi trafiggere da un getto di petrolio (tutto ciò per cui ci si è battuti, con mezzi illeciti, si ritorce contro). Cinderella ritrova il suo Bel Principe ma il finale ha l’amaro in bocca. "Ok Mister" si spegne tristemente con l’immagine del fuoco che cresce ed inghiotte lo schermo ricordando "A Fire" di Ebrahim Golestan.
 
Articolo di Alessandro Arpa

giovedì 23 febbraio 2017

About Elly, Asghar Farhadi (2009)



Rivedendo il film che ha svelato Asghar Farhadi al pubblico internazionale, grazie ai premi ottenuti nei festival di ben quattro continenti, si possono trovare in nuce i temi che in seguito il cineasta non abbandonerà, su cui anzi insisterà in modo quasi accanito, palesando la necessità di aggiungere tasselli, complicare le vicende e portarle al parossismo. “About Elly” rimane più accennato, sospeso, anche per quella sua aura di ‘giallo’ che darà il via al fuorviante luogo comune di Farhadi sceneggiatore e regista di thriller mascherati.
Se infatti in “Una separazione” e ne “Il passato” lo spettatore è a conoscenza di una verità che deve rimettere costantemente in discussione, in “About Elly” insegue la risposta a un quesito: che fine ha fatto la protagonista? Cercandola, si confronta con le contraddizioni degli altri personaggi, più preoccupati di salvare apparenze e decoro che delle sorti di Elly (Taraneh Alidoosti).



Il quarto lungometraggio del regista è stato accolto ovunque molto favorevolmente, ma ha portato la croce della somiglianza con un grande film del passato, “L’avventura” di Michelangelo Antonioni. In effetti, le affinità non mancano. La trama [qui nel dettaglio] della pellicola di Farhadi si può sintetizzare nel modo cui accennavamo: una donna sparisce, probabilmente in mare, ma in modo misterioso; l’avvenimento conduce a una serie di reazioni da parte dei suoi compagni di escursione. Questa sintesi si adatta perfettamente anche al capolavoro di Antonioni; Elly sembra sovrapponibile ad Anna, entrambe stanno vivendo una crisi di coppia, tuttavia con dinamiche tali per cui ricoprono ruoli opposti.
Come profondamente diversi sono altri elementi. L'indole dei personaggi: intraprendenti gli iraniani, come a voler dimostrare la volontà di progresso, la ricercata maturità di un intero popolo, o quanto meno della sua avanguardia; indolenti e annoiati gli italiani. La risoluzione (o meno) dell’enigma. L'andamento della tensione drammatica: Antonioni la disinnesca, Farhadi la fa montare.

Inolte, se l'italiano attribuisce grande importanza ai luoghi che i personaggi attraversano e da cui vengono influenzati, il persiano confina i suoi anti-eroi in un ambiente isolato, distante dalla capitale da cui provengono. Sulle rive del Caspio, in un alloggio di ripiego e non di loro proprietà, i personaggi giocano quindi in campo neutro, ma la distanza dal cuore della società diventa l’occasione per rivelare tantissimo sulla società medesima e sulla mentalità tradizionalista dei suoi abitanti, i cui lati deteriori (maschilismo, falsità, egoismo), normalmente sopiti, si ridestano fino a esplodere al cospetto di una situazione incontrollata, ancor prima che tragica.
Non è propriamente esistenziale il dramma che emerge, è il lascito di una società ipocrita, immobile malgrado gli sforzi per progredire (la metafora finale, fin troppo esplicita, dell’auto impantanata).



Come altre volte - sempre d’ora in avanti - l’autore sceglie il punto di vista di un ceto medio istruito (quanti insegnanti nei suoi film!). Racconta, con coraggio e originalità rispetto al contesto, di separazioni o divorzi, ancor più atipici perché decisi dalle donne (qui i casi sono due). Riporta gli echi della vita vissuta dagli espatriati in un Occidente impervio e non mitizzato (la Germania è il luogo della separazione del personaggio interpretato da Shahab Hosseini). Fa dei bambini i testimoni/vittime della violenza non esclusivamente verbale dei grandi, che corrompono la loro innocenza inculcandovi la liceità della menzogna.

Tematiche che si faranno più marcate nei film successivi, compreso il recente e fortunato "Il cliente", ma che, anticipate in parte nei precedenti, sono racchiuse in toto nell’ottimo “About Elly”. Forse non con lo stesso livello di approfondimento, ma con una straordinaria coralità, resa possibile da una regia fluidissima nei movimenti di macchina, mai ostentati.




Cast di prim’ordine, con Golshifteh Farahani all’ultimo film in Iran. 



domenica 19 febbraio 2017

The Day I Became a Woman, Marziyeh Meshkini (2000)

UN PO’ DI FELLINI IN IRAN 


Considerato dalla critica mondiale come un film felliniano, pluripremiato in numerosi festival internazionali, "The Day I Became a Woman" di Marzieh Meshkini è una tappa imprescindibile per il cinema femminista iraniano. Il primo lungometraggio della regista persiana, moglie di Mohsen Makhmalbaf, incarna al meglio, attraverso le storie di tre donne di età differenti, la lotta contro i costumi ed il patriarcato. L’apporto di Mohsen Makhmalbaf è notevole, infatti oltre ad aver scritto la sceneggiatura, una sorta di pamphlet sull’emancipazione della donna, regala alla moglie alcune immagini tipiche del suo cinema come, ad esempio, quella dello specchio. La struttura dello script è particolare poiché seppure le tre storie siano autonome, convergono nel finale, accarezzandosi con delicatezza senza che una possa prevaricare l’altra.

La protagonista del primo racconto è Hava. Tra meno di un’ora, la piccola compirà nove anni e, quindi, a detta della madre e della nonna, diventerà una donna. Questa “maturazione” implicherebbe una certa discrezione nel parlare con gli uomini e la obbligherebbe ad indossare lo chador. Ma il velo, per la giovane è un impedimento superfluo e, infatti, lo scambia, senza pensarci su, per un colorato pesciolino di plastica. L’insensatezza del velo ad un’età tanto acerba è incastonata nell’immagine dello chador che fa da vela ad una zattera improvvisata [Immagine 1]. Il carattere smaliziato, e aggiungerei spensierato, della piccola si manifesta in due modalità diverse. Per tutto il film, tralasciando la sequenza iniziale, Hava comunica con personaggi maschili. In aggiunta, è proprio lei che va a casa del suo amico Hassan che, come fosse un galeotto, è tra le sbarre domestiche a fare i compiti. La prigione reale di Hassan si contrappone alla gabbia invisibile in cui è racchiuso il destino di Hava che, con il compimento degli anni, dovrà cedere frammenti della sua libertà. Infine, lo scambio zuccheroso reiterato di un lecca lecca tra i due bambini sigla la differenza che intercorre tra l’adulto e l’infante.



Di sofferenze e determinazioni si tinge la seconda storia. Ahoo sta gareggiando in una gara ciclistica. Ma la fatica non preoccupa poiché il vero nemico è il marito che, a cavallo, invita la moglie a scendere dalla bici considerata la groppa del demonio. Il marito la ricatta ed è pronto a divorziare ma lei, irremovibile, pedala. Meshkini mette in scena la parabola dell’uomo eternamente primitivo, fermo nelle sue sciocche convinzioni. La bicicletta diventa il simbolo di un’estenuante lotta al patriarcato. A chiudere il film è la vicenda dell’anziana Hoora. Data l’età, Hoora ha deciso di esaudire i suoi desideri e di acquistare ciò che non ha potuto avere in tutti questi anni. Ad ogni desiderio realizzato, l’anziana toglie dalle sue dita delle strisce di carta che fanno da promemoria. Non avendo una casa, tutto si riversa sulla spiaggia, spazio eterotopico per eccellenza. Un frigorifero, un’aspirapolvere, un set di pentole, queste sono solo alcune cose che l’anziana signora ha comprato. Eppure al mignolo vi è ancora una piccola striscia di carta, un desiderio dimenticato ancora da esaudire. Intanto da lontano giunge voce che Ahoo, dopo essere stata importunata dal marito, avesse terminato la gara prendendo in prestito una bicicletta. Sulla spiaggia s’intravede Hava, indossa lo chador e si dirige verso casa… e non resta che chiedersi se mai quel cordoncino al dito dell’anziana potesse essere il simbolo del cambiamento, la possibilità di raggiungere un’insperata felicità/libertà.

Le redini del discorso femminista cominciato da Meshkini saranno poi prese dalla figliastra Samira che nel 2003 gira "Alle cinque della sera". Lo chador e la bicicletta, vessilli della guerra femminista, sono sostituiti, nel film di Samira Makhmalbaf, dalle scarpe bianche con il tacco ed il sogno della protagonista di diventare il primo presidente donna dell’Afghanistan. Perché le grandi rivoluzioni cominciano spesso dalle piccole cose.

Articolo di Alessandro Arpa

martedì 14 febbraio 2017

Cortometraggi, Keywan Karimi

Il nome di Keywan Karimi è tristemente noto per l’assurda condanna subita nel 2013 a causa della sua attività artistica (in particolare del documentario "Writing on the City", sui murales di Teheran), e le successive drammatiche vicissitudini. Un po’ timidamente, e in ritardo, si sta sollevando una mobilitazione internazionale a suo favore, con sempre maggiori adesioni.

Segnaliamo (e invitiamo a seguire) ad esempio le seguenti pagine Facebook:






Sul nostro blog proviamo a restituirne la figura di cineasta, attraverso una disamina dei cortometraggi che Karimi stesso ha reso disponibili sul suo canale Vimeo. Nell'attesa che anche i lungometraggi godano di una maggiore diffusione.



The Adventure of the Married Couple (realizzato nel 2013, durata 11'). Opera ispirata al racconto "L'avventura di due sposi" di Italo Calvino, letto però in chiave pessimista. Lei è operaia diurna e si occupa della tappatura di bottiglie di vetro, lui è il guardiano notturno di una fabbrica di manichini. In bianco e nero e senza dialoghi, un apologo sull'incomunicabilità di una coppia, la cui crisi si evidenzia attraverso la donna: il suo sguardo sempre malinconico (molto bello il primo piano intravvisto dietro allo scorrere della linea di montaggio), il distrarsi dal lavoro quando il superiore invita una collega in ufficio. Iconico il prefinale coi manichini. Straordinarie le riprese conclusive della fabbrica.






Act, Harekat (realizzato nel 2011, durata 10'). Documentario in bianco e nero sulla sclerosi multipla, girato all'interno di un ospedale. I pazienti spiegano la malattia sia in termini oggettivi che di esperienza personale: come nasce e si sviluppa, cosa provoca, cosa significa esserne affetto per la società circostante e in famiglia. Suggestivo il breve incipit con suoni e immagini manipolati, di per sé eloquenti le immagini dei corpi, su cui l'autore giustamente non indugia. Inevitabile ripensare alla pietra miliare "The House Is Black".





Broken Border (realizzato nel 2012, durata 18') Karimi approda nel Kurdistan iraniano al confine con l'Iraq e filma, senza giudicare, la quotidianità delle comunità locali dedite al contrabbando di petrolio. Abbandonato il bianco e nero per il colore (comunque dominato dal bianco dei paesaggi innevati), contrappuntando le immagini con didascalie di poesie ed espressioni di saggezza popolare, l'autore si concentra sugli strumenti e le attività dei trafficanti (es. la ferratura dei muli), ostacolate - di fatto- solamente dall'ambiente impervio. Ritaglia inoltre una significativa sequenza sull'educazione dei bambini, che si concentra sulla materia che più influenza le loro vite: la geografia. L'attenzione al sociale e il talento fotografico sono i consueti ma, nei luoghi già immortalati magistralmente da Bahman Ghobadi, Karimi non firma la sua opera più personale.





The Children of Depth (realizzato nel 2011, durata 26') Documentario sulla giustizia minorile in Iran. Le interviste a detenuti (spesso rei di furto d'automobile), parenti, avvocati, giudici sono filmate frontalmente, a colori su sfondo nero, in penombra, senza musiche. Le contrappuntano immagini musicate e in bianco e nero: carrellate su fotografie o brevi sequenze, che catturano scampoli di vita dei bambini. Sparse, classiche interviste a esperti del settore (ma non parti in causa nei processi): sociologi, antropologi, giuristi. Per un lavoro dal minutaggio consistente, il regista adotta uno stile tendenzialmente più essenziale, che giova all'intento divulgativo. Ma non risparmia un crudo affondo finale: istantanee su impiccagioni e punizioni corporali (cui per ironia della sorte sarà egli stesso condannato), una fotografia che vira sul bianco e nero più cupo, ma al contempo il disvelamento dei volti sorridenti dei giovani, prima oscurati. Ne esce un'opera di grande qualità.






giovedì 9 febbraio 2017

Sesso e filosofia, Mohsen Makhmalbaf (2005)


MOHSEN MAKHMALBAF CADE SULL’AMORE 



Di certo, "Sesso e filosofia" del 2005 non è il miglior film di Mohsen Makhmalbaf. Si presenta come un film sull’amore e si conclude come fosse una ballata sulla solitudine, quella di John, insegnante di danza e poeta infibulato in banali filosofismi, ma anche la nostra. Il protagonista, interpretato dal cantautore e attore tagiko Daler Nazarov, ha deciso di dare una svolta alla sua vita proprio nel giorno in cui compie cinquanta anni. Vaga con la sua auto per la città, con due musicisti di strada a risvegliare i ricordi del passato e cinquanta candele accese a scaldarli. Vorrebbe incontrare le donne che ha amato e che sono riuscite a dare un senso alla sua vita rendendola felice. Fissa quindi un appuntamento per le due nella sala da ballo in cui insegna. A presentarsi sono quattro donne che, metaforicamente, rappresentano quattro tipologie differenti d’amore.

Intervallato da sfibranti momenti di danza, il primo racconto è dedicato ad una hostess di volo (Mariam). Il discorso si muove su due concezioni contrastanti. John crede nella massima –faccio l’amore dunque esisto- mentre la donna accetta passivamente il suo stato remissivo: - sono oggetto d’amore dunque esisto-. Paradossalmente, l’entità femminile ne esce vincitrice nel meccanismo schiavizzante che la vede succube e nel contempo regina venerata. Il pensiero di essere amata le basta e non è vinta da necessità carnali. L’uomo, invece, trafigge con frecce imbevute di lussuria il pensiero cartesiano e svela la sua natura ferina. A Farzana, artista bizzarra, è dedicato il secondo ricordo/racconto incentrato sulla fase dell’innamoramento. La giovane ragazza ammette di non essere capace di amare. Ciò che prova quando il sentimento è contraccambiato è una caduta in un vortice ordinario di noie. L’abitudine porta con sé gli strascichi della fine. -Ogni amore è la conseguenza di eventi fortuiti-, questo è il pensiero che avvolge la terza storia. Secondo Makhmalbaf, la casualità dell’affezione rende più sincera l’intensità del rapporto. Ricercare l’amore sarebbe come rincorrere una delicata sagoma che ci mostra la nuca. Scoprirne il volto scatenerebbe sensazioni contrastanti e compromettenti e siglerebbe un declassamento della spontaneità nel sentimento. 


La parte più interessante dell’intero film è sicuramente quella finale. Malohat proprio come John ha portato avanti quattro storie d’amore contemporaneamente. Il tradimento s’insinua nei rapporti umani ed è il ponte che lega gli uomini alle donne. L’amore subisce l’ennesima sconfitta e si macchia dei peccati terreni.

Alle immagini ricorrenti dello specchio e del vaso irrorato d’acqua, il cinema di Mohsen Makhmalbaf aggiunge quella del cronometro che, come strumento del tempo, ha la funzione di acciuffare i secondi, i minuti e le ore di felicità del protagonista.

Sesso e filosofia ha un’ottima fotografia ma è un film di momenti, alcuni ben rappresentati, altri meno.


Articolo di Alessandro Arpa

domenica 5 febbraio 2017

Il cerchio, Jafar Panahi (2000)

Testo tratto da “Il velo sullo schermo”. Da cui il solito taglio didascalico.



                                       

                                                          La trama del film

Schermo nero. Dopo qualche istante partono i titoli di testa. Contemporaneamente si odono le urla strazianti di una donna che partorisce. Lo schermo si fa di colpo completamente bianco, lo sportello di una finestrella, collocato nel mezzo una parete (di un semplice ospedale o di una prigione?) viene aperto da una delle levatrici, che chiama la madre della donna, avvisandola che sua figlia ha dato alla luce una femmina.

L'anziana madre è incredula: l'ultima ecografia aveva dato esito opposto e la giovane madre verrà ripudiata dal marito. Chiede allora a una seconda ostetrica che conferma il sesso del neonato. La donna è sconvolta; dopo un'iniziale riluttanza trova il coraggio di dare, a un'altra sua figlia, la “triste” notizia. 

La telecamera abbandona l'anziana donna, per seguire, senza stacchi di montaggio,prima brevemente la figlia che ha appreso il sesso del neonato poi, sempre senza stacchi, la vicenda di tre donne che ha inizio in prossimità di una cabina telefonica.

In brevissimo tempo avvengono tre eventi: una delle signore, Arezoo, non riesce a telefonare; la seconda, Narghess, viene interpellata da un passante che le chiede chi stia aspettando, mentre la prima crede che sia stata importunata e insegue l'uomo per ottenere spiegazioni; la terza si allontana e viene fermata da un Guardiano della Rivoluzione, con le prime due che, nascondendosi dietro un'automobile, osservano la scena e si chiedono se la loro compagna abbia con sé un non meglio precisato permesso.

Perché le due non vogliono farsi vedere? Perché sono così nervose? Scopriremo che si tratta di detenute che stanno approfittando del citato permesso per tentare di evadere e di raggiungere il paese della seconda donna.

Quest'ultima va alla ricerca di un'altra cabina telefonica, di un negozio gestito da un uomo che potrebbe aiutarle e di un posto per accendersi una sigaretta senza che sia tacciata di immoralità.

Le due si separano; Arezoo, fuori campo, è riuscita a rimediare un po' di soldi. Raggiunto il parcheggio dei pullman, però, si rifiuta di seguire Narghess al suo paese.

Narghess, col denaro che le ha procurato Arezoo, tenta di comprare il biglietto per il viaggio, riuscendoci grazie alla disponibilità del bigliettaio che le consente di superare un inghippo burocratico. Mancano dieci minuti alla partenza e Narghess ne approfitta per acquistare una camicia e per rintracciare Arezoo, che l'aveva abbandonata frettolosamente.

Reperitone l'indirizzo, si reca a casa sua, ricevendo una pessima accoglienza: il padre le dà della svergognata, mentre in un secondo tempo sopraggiungono i fratelli che hanno in mente di dare ad Arezoo una lezione. Mentre Narghess si allontana, i tre uomini discutono animosamente, mentre la telecamera, immobile all'esterno, registra solo i dialoghi, mentre Narghess è già altrove e la vista di ciò che accade nell'appartamento ci è preclusa dalla porta, che oscilla tra il chiuso e il socchiuso.

E' il turno di un nuovo personaggio, Parì: un'altra donna evasa che, faticando a trattenere conati di vomito, si reca da una sua amica bigliettaia. La camera le inquadra attraverso le grate della postazione dell'amica, che assomigliano alle sbarre di un carcere, mentre alcuni clienti intenti a comprare biglietti ci oscurano completamente la visuale. 

Parì si fa accompagnare in macchina dalla sua amica Elhan, un'altra ex detenuta che ora lavora in pronto soccorso. Durante il tragitto, racconta che suo marito è stato fucilato.

All'ospedale, Parì confessa Elhan di essere incinta e di voler, con il suo aiuto, abortire, possibilità fino ad ora preclusale per la sua condizione di carcerata e di vedova. Elhan inizialmente prende tempo e torna al lavoro. Parì fatica ad attenderla ed è sempre più impaziente, anche perché nel frattempo ode il pianto di una donna che ha perso suo figlio e il racconto di un suicidio.

Alla fine Elhan dice dice di non potere aiutare l'amica, che in preda alla delusione vorrebbe accendersi una sigaretta, ma non può farlo. Se ne va accusando Elhan di essere diventata un'insensibile.

All'esterno, prova nuovamente, invano, a telefonare, mentre aiuta due soldati a fare la stessa cosa. I conati non le danno tregua.

Girovagando, si imbatte una bambina appena abbandonata, che si nasconde. Parì riesce a scorgere la madre e la raggiunge. Quest'ultima, che scopriremo chiamarsi Nirè, appare disperata e confida che sua figlia trovi qualcuno che sia in grado di prendersi cura di lei. Nel frattempo è un venditore di palloncini a prendere la piccola per mano e a consegnarla alla polizia.

Comincia a tuonare, Nirè si incammina, lo sguardo perso, come a fissare il nulla. Fuori campo, un uomo accosta con la propria auto e le offre un passaggio, senza ottenere alcuna reazione dalla donna. Un secondo autista si ferma, senza proferir parola. Questa volta Nirè raccoglie il tacito invito e sale sull'auto. A un posto di blocco, un soldato si rivolge all'autista, di nome Hajaghà, come a un suo capo. Nirè si spaventa e implora l'uomo affinché non la denunci, giurando di non fare il mestiere. Questi la rimprovera severamente per aver accettato un passaggio da uno sconosciuto e le dice di attenderlo, mentre scende e si allontana, raggiungendo i suoi colleghi che hanno appena fermato una prostituta con un cliente. La prima sostiene di farlo per necessità economica, il secondo supplica Hajaghà di soprassedere per non rovinargli la reputazione. Nirè ne approfitta per fuggire di soppiatto, mentre a un gruppo di persone che stanno realizzando un filmino di nozze viene impedito di riprendere.

La prostituta viene fatta salire su un pullman militare, dove due soldati armati chiacchierano e canticchiano, mentre a lei è impedito di accendersi una sigaretta. Successivamente, però tutti iniziano a fumare e lei si accoda.

Uno stacco brusco ci conduce in prigione, dove viene portata la prostituta. Una panoramica ci lascia intravvedere le altre donne presenti nella cella. Nella penombra, è possibile riconoscere almeno una protagonista del film, Narghess. Squilla il telefono e un soldato risponde: qualcuno chiede di Solmaze Gholami; il carceriere crede che si tratti della nuova arrivata, ma gli spettatori più attenti avranno riconosciuto il nome della donna che aveva partorito all'inizio del film. Comunque, nessuna delle detenute sostiene di essere Solmaze, anche se (o proprio perché) ciò avrebbe probabilmente comportato la scarcerazione. 




                                                               Un'analisi

“Il cerchio” è l’opera numero tre di Jafar Panahi, nonché l’unico film iraniano, finora, ad aver ottenuto il Leone d’Oro a Venezia. Il regista ne ha curato anche il montaggio e, per la prima volta, la produzione.

Rispetto alle convenzioni del Nuovo Cinema Iraniano, questo lungometraggio si pone da un alto in continuità, ma dall’altro compie una netta rottura.

Andiamo per ordine. Il tema del cerchio è alquanto diffuso nella cinematografia persiana. Sia per quanto concerne la struttura dei film, sia per quanto riguarda metafore e immagini che spesso ritroviamo. Un esempio per tutti è “Il ciclista” (1986) di Mohsen Makhmalbaf, che narra la storia di un immigrato afgano che, per pagare le cure a sua moglie malata, scommette di riuscire a pedalare per sette giorni consecutivi lungo un percorso circolare.

Il film di Panahi fa largo uso di allegorie, dimostrandosi anche in questo conforme alla tradizione. Quella del cerchio è la metafora dell’impossibilità di uscire dalla propria condizione da parte delle donne oppresse della società iraniana. Il lungometraggio ha inizio in un ospedale (a cui si accede percorrendo una scala a chiocciola, non l’unico percorso circolare del film) che sembra una prigione e si conclude in un carcere vero e proprio. Altri luoghi attraversati dal film rimandano alla medesima sensazione di claustrofobia, se non di prigionia vera e propria, prodotta dalle due metafore complementari del cerchio e del carcere e dallo stile del registra, che segue nervosamente le attrici (non professioniste, come si può notare dai frequenti sguardi in macchina) da vicino, staccando col montaggio il più tardi possibile.

All’interno di tale cornice emergono i desideri frustrati delle otto protagoniste. Nessuno risponde mai alle loro telefonate e la possibilità di partire è preclusa (altre due metafore dello stesso tenore). Persino un piccolo gesto trasgressivo, l’accendersi una sigaretta, incontra ostacoli di ogni sorta. Per due volte le donne del film parlano di un luogo terreno situato altrove come di un paradiso, sintetizzando così la speranza creata dalla fede con le problematiche reali della loro esistenza quotidiana.

La rottura praticata da Panahi risiede proprio nella denuncia sociale esplicita. Spesso i registi iraniani, specie della generazione precedente, hanno tentato di fare in modo che i loro film potessero essere visti anche in patria, aggirando la censura. Per non rinunciare a descrivere i problemi della loro società, hanno cercato di alludervi solamente, mostrandoli tra le righe, limitandosi a qualche accenno, magari narrando le vicende attraverso gli occhi di un bambino, ingenuo e innocente per definizione. Lo stesso Panahi era ricorso ai medesimi artifici.

Con “Il cerchio” Panahi svolta verso un cinema apertamente critico, politico (per quanto questa definizione non gli piaccia), duro e diretto. Anche la scelta di ambientare il film in città, in continuità con i film precedenti, non è così frequente in Iran e testimonia la volontà di operare nel cuore delle contraddizioni del Paese.

Ovviamente un’opzione simile non può passare inosservata, sotto gli occhi dei censori. Lo stesso regista se ne rende conto e inserisce una scena breve ma indicativa, sul finire del film, cui la critica non ha, colpevolmente, fatto caso: al posto di blocco dove vengono fermate le donne accusate di meretricio, si avvicina una coppia in una condizione diametralmente opposta: è nel giorno del suo matrimonio. Al seguito, gli invitati che stanno realizzando un filmino. Purtroppo per loro giunge perentorio l’ordine di uno dei soldati: ‘Qui non si può filmare!’ 

Con un espediente metacinematografico, tipicamente iraniano, Panahi ci dice che certe cose nel suo Paese si possono raccontare. Altre proprio no.