domenica 27 novembre 2016

Turtles Can Fly, Bahman Ghobadi (2004)

 Di Alessandro Arpa
Nel 2004, Bahman Ghobadi realizza “Lakposhtha parvaz mikonand” (“Turtles Can Fly), co-produzione iraniana e irachena, un film-denuncia contro la guerra in Iraq. Al confine con la Turchia, nel Kurdistan iracheno, si sopravvive. Non è ancora scoppiata la guerra tra i “salvatori” americani e la milizia di Saddam ma la situazione in cui versa la regione non è delle migliori. La gente del posto è costretta ad inventare lavori, a bonificare campi minati per guadagnare l’indispensabile. Ghobadi descrive minuziosamente la realtà del confine attraverso gli occhi dei bambini, il tassello debole della nostra società. Il regista lo fa con strazio e drammaticità e già nell’incipit si anticipano le tribolanti condizioni in cui versano gli infanti della zona. Una bambina si sacrifica ed il suicidio diventa il frastuono a risvegliare le mediocri menti. E ci si interroga, sin da subito, sulla funzione della guerra, su chi siano i vincitori e sul perché a soffrire debbano essere sempre e comunque gli innocenti. Con la prima immagine, lo spettatore è catapultato in un’altra realtà che, seppure lontana dalla loro agiata esistenza, scuote. Come colpiscono all’anima, anche, i numerosi primissimi piani dei bambini e di Agrin [Figura 1], giovane protagonista insieme al piccolo cieco Riga, Halbcheh e Satellite.




I primi tre protagonisti compongono un’anomala famiglia. Agrin raffigura la madre premurosa ma sconfitta dall’inesorabilità della guerra, come se il suo corpo tanto giovane non riuscisse a contenere gli errori dell’uomo. Il piccolo Riga simboleggia l’innocenza e la cecità che lo affligge è un chiaro segno d’impotenza di fronte a quest’inferno. Il padre è Halbechec, un ragazzo sensitivo, vittima delle mine antiuomo. Privato di entrambi gli arti, egli assomiglia ad una testuggine perché è un rettile che sfugge dal dolore perdendosi nel bene immenso provato per la sorella Agrin e il piccolo orfano Riga [Immagine 2]. Lo stile di Ghobadi è diretto e la scelta di utilizzare attori invalidi è disturbante ma incisiva. Ad accomunarli è la loro condizione di profughi, fuggiti dal loro Paese dopo aver vissuto l’esperienza dei raid aerei e la crudeltà militare. La loro esistenza è una stoffa rammendata male e tappezzata da spaventose allucinazioni.



Nella logica famigliare cerca d’intromettersi Satellite, infatuato di Agrin. A differenza dei tre, però, il giovane ha una vita, paradossalmente, più serena dal momento che non ha mai conosciuto gli orrori del conflitto. La verginità bellica di Satellite spiega la sua profonda ammirazione per l’America. Non è un caso che Ghobadi affidi soltanto a lui delle battute in inglese o, ancora, che sia lui a spiegare ad un anziano del luogo cosa voglia dire l’acronimo USA [Figura 3].  Ma la visione del piccolo si compone di stereotipi e gli Stati Uniti diventano semplicisticamente lo Stato di Washington e San Francisco o il luogo in cui è stato prodotto Titanic e i film di Bruce Lee e, erroneamente, il paese di nascita di Zinedine Zidane [Figura 4]. In aggiunta, egli sostiene che il compito della milizia americana sia portare la pace ma, alla vista offuscata del piccolo, si contrappone l’immagine televisiva di Bush che porta gli spettatori a riflettere e a rivalutare le ragioni scatenanti della Guerra in Iraq [Figura 5].



La vita dei bambini è stravolta dalla dichiarazione di guerra e l’immagine di Riga, incorniciata col filo spinato, è l’urlo rivolto al mondo, il cessate il fuoco che vibra ancora nell’aria ma che nessuno percepisce [Figura 6]. Per placare il pianto di Riga, intervengono due bambini e, in una scena straziante, la disabilità diventa l’unico mezzo per sorridere. La gamba mutilata si trasforma in un mitra [Figura 7]. Ed il mondo trema all’ennesima immagine che non avremmo mai voluto vedere. Perché “Turtles can fly” non è solo un film ma un’enorme traccia di sangue sul corpo della Storia. 




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